Spigolo sud/est della Rossa, un racconto di vita vissuta dell'amico Mario T.
...mi dicono: tu l’hai gia’ fatta, la conosci, non puoi dire di no! Programmiamo il tutto e la mattina della domenica alle quattro partiamo. All’esame di fisica ci penserò poi!!! Siamo in cinque, due corde da 40 metri, tre picozze, niente ramponi (ma cosa importa, sarà una arrampicata praticamente estiva). Gli errori nella programmazione e nella organizzazione, si sommano uno dopo l’altro. Alle 6 lasciamo la macchina, il freddo e’ veramente pungente. Zaino sulle spalle e si parte. Alle sette passiamo davanti al rifugio del CAI, e’ tutto chiuso, proseguiamo verso la nostra montagna senza avvisare nessuno e, senza lasciare nemmeno un biglietto per il nostro amico/custode, con l’indicazione della meta. Oltre i 2000 metri troviamo un pendio ghiacciato, siamo costretti ad utilizzare la corda per superarlo, malediciamo il fatto di non avere portato i ramponi. Nubi minacciose si addensano sopra le cime oltre i 3000 metri...la nostra e’ ancora libera. Arriviamo alla base dello spigolo, cominciano i preparativi per la salita: due cordate (una da tre con me come capo cordata) e una da due....comincia a nevicare, Angelo propone di rinunciare, nessuno ci fa caso, cominciamo a salire. Siamo giovani, forti, ci sentiamo eroi e immortali.
Le difficoltà sono subito evidenti, la roccia, ormai bagnata e’ scivolosa...I nostri due amici, molto piu’ veloci, (la cordata da due e’ decisamente piu’ veloce di quella da tre) scompaiono dalla nostra vista, li sentiamo imprecare contro tutto e contro tutti, pezzi di ghiaccio mi cadono sul casco e sulle spalle, sono loro che per poter progredire, rompono le colate. Non ho un orologio e non mi rendo conto del tempo che passa inesorabile. Ad un certo punto chiedo ad un mio compagno di cordata che ore fossero...le due e mezza...mi risponde.
COSAAAAA!!!
Cavoli e’ tardissimo, mai e poi mai, con questo ritmo, saremo in grado di raggiungere la vetta e fare ritorno al rifugio prima della notte. Decido di ritornare. La roccia e’ ricoperta di neve molto polverosa e molto scivolosa...chiedo al terzo di cordata di valutare la possibilita’ di scendere lungo un pendio ghiacciato evitando la roccia ormai ricoperta di neve, risponde che la cosa e’ fattibile. Lentamente e assicurati da me (dall’alto) scendono , il problema si manifesta nella sua drammaticita’ quando arriva il mio turno...sono, si fa per dire, assicurato dal basso, in caso di scivolata il canalino
sarebbe un trampolino di lancio verso il vuoto che porterebbe a sfracellarmi 100 metri più in basso, trascinando con me i compagni di cordata
Niente e nessuno sarebbero in grado di fermarci. Lentamente comincio la discesa, sfrutto in parte gli scalini fatti dagli amici, ho con me la piccozza che, senza dubbio, mi aiuta. Sento gli scarponi che aggrediscono il ghiaccio, ho paura...devo distogliere il pensiero da quello che potrebbe accadere in pochi attimi...non so quanto tempo impiego a scendere quei 30 metri di neve e di ghiaccio che mi separano da loro...mi sembra una eternità…quando arrivo alla piazzola e in sicurezza, vicino ai miei compagni, tiro un profondo respiro di sollievo. La tensione mi ha svuotato quasi completamente ma dobbiamo proseguire il più velocemente possibile, solo così potremo tentare di raggiungere il rifugio, l’importante e’ arrivare almeno alla base dello spigolo prima della notte...il più sarebbe fatto.
Non è così, siamo in aprile, il buio arriva inesorabile. Non voglio darmi per vinto, sono davanti, siamo slegati, un chiodo, un moschettone e qualche metro di discesa in corda doppia. Siamo bagnati e la corda, scendendo alla “comici“ scorre sui nostri vestiti con difficoltà. E’ buio pesto,
voglio scendere, vedo solo il bianco della neve ma ho ancora la speranza di riuscire ad arrivare al passo della ”rossa”…e poi al rifugio.
Ad un tratto mi fermo, non so perché ma, se avessi fatto altri due passi sarei precipitato, mi giro, guardo i miei amici (piu che guardarli li intuisco)....se vogliamo tornare a casa non lo dobbiamo fare questa sera...dico loro.Angelo risponde “lo avevo gia pensato“, più sopra ho visto una spaccatura nella roccia s otto la quale potremo ripararci. Siamo tutti d’accordo.
Risaliamo nuovamente, troviamo la crepa, stacchiamo dei pezzi di ghiaccio per chiudere un po’ le fessure....un miraggio, mi sembra un miraggio...abbiamo un tetto per riparaci e riposare. Non vedo l’ora di entrare in quell’improvvisato rifugio.
Un’illusione, e’ tutto ghiacciato, siamo sdraiati sul ghiaccio con i piedi all’esterno. Il vento e’ molto forte e sibila infilandosi nelle fessure .
Sandro e Danilo nel frattempo, dopo avere raggiunta la vetta con non poche difficolta’, arrivano al rifugio certi di trovarci, cosi’ non è, e dopo una breve attesa, d’accordo con il nostro amico/gestore, lanciano l’allarme.
Dieci uomini del soccorso alpino, della guardia di finanza e del Cai salgono al rifugio, un elicottero viene portato al campo sportivo di Domodossola.
Due soccorritori, dopo essere arrivati al rifugio, proseguono verso la base della nostra montagna alla
ricerca di qualche segnale di vita. Gli altri 8 si fermano in attesa di intervenire ma, quando, in che modo e, soprattutto per fare cosa,
ancora nessuno lo sa. Ad un tratto, dall’alto del nostro spigolo, sentiamo chiamare....unendo le nostri tre voci rispondiamo, ma
il vento gioca a nostro sfavore. I soccorritori torneranno nella notte al rifugio dicendo di non avere sentito nulla. L’ansia cresce. L’ipotesi che maggiormente prende piede e’ la seguente: uno dei tre, scendendo in corda doppia, potrebbe avere strappato dalla roccia il chiodo precipitando, lasciando cosi’ gli altri due nella impossibilita’ di continuare la discesa...chi potrebbe essere dei tre? Sarebbe, forse l’ipotesi meno drammatica, in caso di disgrazia. Dal rifugio i due amici chiamano Verbania tranquillizzando i rispettivi genitori , mettendoli al corrente di quanto sta accadendo...telefonano anche al nostro amico prete che si appresta immediatamente ad avvisare tutti gli amici che la sera si riuniscono nella saletta dell’oratorio, di quanto sta accadendo...
Le sue precise parole “ NON LI TROVANO PIU”.
I genitori di noi malcapitati non sanno nulla, viene loro comunicato che rimarremo al rifugio per la notte, essendo sopraggiunto il maltempo.
La notte e’ lunga, il vento sibila, nessuno parla, non so cosa passa nella testa dei miei compagni di sventura, ma so cosa passa nella mia...non penso al casino che sicuramente abbiamo scatenato, non penso ai miei a casa, non penso a nulla di tutto questo, sono relativamente tranquillo, credo di
gestire la situazione al meglio. Voglio fare il medico, sono al primo anno di medicina, non voglio perdere l’uso delle dita delle mani per
congelamento...non devo addormentarmi. Contraggo i muscoli cominciando dal collo, poi le spalle, le braccia, le dita delle mani, il torace,
l’addome e giù fino all’alluce , per poi ricominciare. I minuti, le ore passano lentamente, il buio e’ pesto, nella tasca dei pantaloni ho ancora il martello che non riesco a levare, siamo troppo incastrati. Ad un tratto intravedo la schiena del mio amico, sicuramente mi sono addormentato senza rendermene conto...la luce. Ascolto il mio corpo, funziona tutto.
Vorrei uscire da quel buco e cominciare a scendere...mi convincono ad aspettare ancora un pò, la luce e’ ancora troppo scarsa. Comincia la marcia di discesa, la neve e’ tanta...siamo stanchi e infreddoliti. Dopo circa un’ora vediamo in lontananza due uomini che salgono verso di noi…è la prima squadra di soccorso. Ci stringono la mano, ci offrono tè caldo e cioccolata, vorrei rifiutare ho la sensazione di approfittare, ma non e’ così, in montagna c’è tantissima solidarietà Poche parole ma tanto calore. Con la radio avvisano le altre due squadre che stanno salendo e la loro base a Domodossola. L’elicottero prende la via del rientro. Al rifugio il primo impatto e’ di gioia e allegria...ma poi un enorme cazziatone.
Cazziatone piu’ che giustificato...non importa, siamo vivi e stiamo festeggiando. La mattina le notizie che dalla montagna arrivano a Verbania sono...li hanno trovati e li stanno portando giù...frase molto sibillina.
Li stanno portando giu! Ma come staranno? Feriti, morti o chissa! Mio padre, l’amico Sergio e Giuseppe partono in macchina per venirci incontro.e per sapere finalmente la verita’ sulla nostre condizioni. La prima frase di mia madre all’arrivo a casa “ ti ti in muntagna ti ve pu”.
Tradotto “ tu tu in montagna non vai più”.
Dopo 15 giorni ancora insieme, ancora legati alla stessa corda sulla paretina di ghiaccio dell’ Hosandor. Che bella malattia la montagna!!!
Martedì esame superato.
Le mie mani sono molto rovinate e gonfie...Conclusione, un 18 quasi regalato. Un mio vicino di casa, dopo avere chiesto informazioni sulla nostra disavventura dice: io non sarei venuto a cercarvi, queste situazioni quasi ve le CERCATE. Con calma gli dico: nessuno ti avrebbe chiesto di fare qualche cosa, rischiando forse la vita per soccorrere gente rimasta in montagna ma, ricordati, che se tu ti fossi trovato in quelle condizioni, anche
se non avessi conosciuto nemmeno il tuo nome , io sarei partito immediatamente. Capisce e non replica.
Dopo qualche giorno Angelo, un mio compagno di sventura, ritornando da Milano, incontra in treno un
coetaneo, il discorso cade sulla montagna. Lo sconosciuto gli chiede: “hai letto sul giornale di quei tre ragazzi rimasti domenica notte sullo spigolo
della Rossa? Chissà come staranno dopo un eperienza simile?” Stanno bene, risponde Angelo, uno di loro sono io…RIDONO DIVERTITI.
Sabato 7 aprile 1973, Mario T.
...mi dicono: tu l’hai gia’ fatta, la conosci, non puoi dire di no! Programmiamo il tutto e la mattina della domenica alle quattro partiamo. All’esame di fisica ci penserò poi!!! Siamo in cinque, due corde da 40 metri, tre picozze, niente ramponi (ma cosa importa, sarà una arrampicata praticamente estiva). Gli errori nella programmazione e nella organizzazione, si sommano uno dopo l’altro. Alle 6 lasciamo la macchina, il freddo e’ veramente pungente. Zaino sulle spalle e si parte. Alle sette passiamo davanti al rifugio del CAI, e’ tutto chiuso, proseguiamo verso la nostra montagna senza avvisare nessuno e, senza lasciare nemmeno un biglietto per il nostro amico/custode, con l’indicazione della meta. Oltre i 2000 metri troviamo un pendio ghiacciato, siamo costretti ad utilizzare la corda per superarlo, malediciamo il fatto di non avere portato i ramponi. Nubi minacciose si addensano sopra le cime oltre i 3000 metri...la nostra e’ ancora libera. Arriviamo alla base dello spigolo, cominciano i preparativi per la salita: due cordate (una da tre con me come capo cordata) e una da due....comincia a nevicare, Angelo propone di rinunciare, nessuno ci fa caso, cominciamo a salire. Siamo giovani, forti, ci sentiamo eroi e immortali.
Le difficoltà sono subito evidenti, la roccia, ormai bagnata e’ scivolosa...I nostri due amici, molto piu’ veloci, (la cordata da due e’ decisamente piu’ veloce di quella da tre) scompaiono dalla nostra vista, li sentiamo imprecare contro tutto e contro tutti, pezzi di ghiaccio mi cadono sul casco e sulle spalle, sono loro che per poter progredire, rompono le colate. Non ho un orologio e non mi rendo conto del tempo che passa inesorabile. Ad un certo punto chiedo ad un mio compagno di cordata che ore fossero...le due e mezza...mi risponde.
COSAAAAA!!!
Cavoli e’ tardissimo, mai e poi mai, con questo ritmo, saremo in grado di raggiungere la vetta e fare ritorno al rifugio prima della notte. Decido di ritornare. La roccia e’ ricoperta di neve molto polverosa e molto scivolosa...chiedo al terzo di cordata di valutare la possibilita’ di scendere lungo un pendio ghiacciato evitando la roccia ormai ricoperta di neve, risponde che la cosa e’ fattibile. Lentamente e assicurati da me (dall’alto) scendono , il problema si manifesta nella sua drammaticita’ quando arriva il mio turno...sono, si fa per dire, assicurato dal basso, in caso di scivolata il canalino
sarebbe un trampolino di lancio verso il vuoto che porterebbe a sfracellarmi 100 metri più in basso, trascinando con me i compagni di cordata
Niente e nessuno sarebbero in grado di fermarci. Lentamente comincio la discesa, sfrutto in parte gli scalini fatti dagli amici, ho con me la piccozza che, senza dubbio, mi aiuta. Sento gli scarponi che aggrediscono il ghiaccio, ho paura...devo distogliere il pensiero da quello che potrebbe accadere in pochi attimi...non so quanto tempo impiego a scendere quei 30 metri di neve e di ghiaccio che mi separano da loro...mi sembra una eternità…quando arrivo alla piazzola e in sicurezza, vicino ai miei compagni, tiro un profondo respiro di sollievo. La tensione mi ha svuotato quasi completamente ma dobbiamo proseguire il più velocemente possibile, solo così potremo tentare di raggiungere il rifugio, l’importante e’ arrivare almeno alla base dello spigolo prima della notte...il più sarebbe fatto.
Non è così, siamo in aprile, il buio arriva inesorabile. Non voglio darmi per vinto, sono davanti, siamo slegati, un chiodo, un moschettone e qualche metro di discesa in corda doppia. Siamo bagnati e la corda, scendendo alla “comici“ scorre sui nostri vestiti con difficoltà. E’ buio pesto,
voglio scendere, vedo solo il bianco della neve ma ho ancora la speranza di riuscire ad arrivare al passo della ”rossa”…e poi al rifugio.
Ad un tratto mi fermo, non so perché ma, se avessi fatto altri due passi sarei precipitato, mi giro, guardo i miei amici (piu che guardarli li intuisco)....se vogliamo tornare a casa non lo dobbiamo fare questa sera...dico loro.Angelo risponde “lo avevo gia pensato“, più sopra ho visto una spaccatura nella roccia s otto la quale potremo ripararci. Siamo tutti d’accordo.
Risaliamo nuovamente, troviamo la crepa, stacchiamo dei pezzi di ghiaccio per chiudere un po’ le fessure....un miraggio, mi sembra un miraggio...abbiamo un tetto per riparaci e riposare. Non vedo l’ora di entrare in quell’improvvisato rifugio.
Un’illusione, e’ tutto ghiacciato, siamo sdraiati sul ghiaccio con i piedi all’esterno. Il vento e’ molto forte e sibila infilandosi nelle fessure .
Sandro e Danilo nel frattempo, dopo avere raggiunta la vetta con non poche difficolta’, arrivano al rifugio certi di trovarci, cosi’ non è, e dopo una breve attesa, d’accordo con il nostro amico/gestore, lanciano l’allarme.
Dieci uomini del soccorso alpino, della guardia di finanza e del Cai salgono al rifugio, un elicottero viene portato al campo sportivo di Domodossola.
Due soccorritori, dopo essere arrivati al rifugio, proseguono verso la base della nostra montagna alla
ricerca di qualche segnale di vita. Gli altri 8 si fermano in attesa di intervenire ma, quando, in che modo e, soprattutto per fare cosa,
ancora nessuno lo sa. Ad un tratto, dall’alto del nostro spigolo, sentiamo chiamare....unendo le nostri tre voci rispondiamo, ma
il vento gioca a nostro sfavore. I soccorritori torneranno nella notte al rifugio dicendo di non avere sentito nulla. L’ansia cresce. L’ipotesi che maggiormente prende piede e’ la seguente: uno dei tre, scendendo in corda doppia, potrebbe avere strappato dalla roccia il chiodo precipitando, lasciando cosi’ gli altri due nella impossibilita’ di continuare la discesa...chi potrebbe essere dei tre? Sarebbe, forse l’ipotesi meno drammatica, in caso di disgrazia. Dal rifugio i due amici chiamano Verbania tranquillizzando i rispettivi genitori , mettendoli al corrente di quanto sta accadendo...telefonano anche al nostro amico prete che si appresta immediatamente ad avvisare tutti gli amici che la sera si riuniscono nella saletta dell’oratorio, di quanto sta accadendo...
Le sue precise parole “ NON LI TROVANO PIU”.
I genitori di noi malcapitati non sanno nulla, viene loro comunicato che rimarremo al rifugio per la notte, essendo sopraggiunto il maltempo.
La notte e’ lunga, il vento sibila, nessuno parla, non so cosa passa nella testa dei miei compagni di sventura, ma so cosa passa nella mia...non penso al casino che sicuramente abbiamo scatenato, non penso ai miei a casa, non penso a nulla di tutto questo, sono relativamente tranquillo, credo di
gestire la situazione al meglio. Voglio fare il medico, sono al primo anno di medicina, non voglio perdere l’uso delle dita delle mani per
congelamento...non devo addormentarmi. Contraggo i muscoli cominciando dal collo, poi le spalle, le braccia, le dita delle mani, il torace,
l’addome e giù fino all’alluce , per poi ricominciare. I minuti, le ore passano lentamente, il buio e’ pesto, nella tasca dei pantaloni ho ancora il martello che non riesco a levare, siamo troppo incastrati. Ad un tratto intravedo la schiena del mio amico, sicuramente mi sono addormentato senza rendermene conto...la luce. Ascolto il mio corpo, funziona tutto.
Vorrei uscire da quel buco e cominciare a scendere...mi convincono ad aspettare ancora un pò, la luce e’ ancora troppo scarsa. Comincia la marcia di discesa, la neve e’ tanta...siamo stanchi e infreddoliti. Dopo circa un’ora vediamo in lontananza due uomini che salgono verso di noi…è la prima squadra di soccorso. Ci stringono la mano, ci offrono tè caldo e cioccolata, vorrei rifiutare ho la sensazione di approfittare, ma non e’ così, in montagna c’è tantissima solidarietà Poche parole ma tanto calore. Con la radio avvisano le altre due squadre che stanno salendo e la loro base a Domodossola. L’elicottero prende la via del rientro. Al rifugio il primo impatto e’ di gioia e allegria...ma poi un enorme cazziatone.
Cazziatone piu’ che giustificato...non importa, siamo vivi e stiamo festeggiando. La mattina le notizie che dalla montagna arrivano a Verbania sono...li hanno trovati e li stanno portando giù...frase molto sibillina.
Li stanno portando giu! Ma come staranno? Feriti, morti o chissa! Mio padre, l’amico Sergio e Giuseppe partono in macchina per venirci incontro.e per sapere finalmente la verita’ sulla nostre condizioni. La prima frase di mia madre all’arrivo a casa “ ti ti in muntagna ti ve pu”.
Tradotto “ tu tu in montagna non vai più”.
Dopo 15 giorni ancora insieme, ancora legati alla stessa corda sulla paretina di ghiaccio dell’ Hosandor. Che bella malattia la montagna!!!
Martedì esame superato.
Le mie mani sono molto rovinate e gonfie...Conclusione, un 18 quasi regalato. Un mio vicino di casa, dopo avere chiesto informazioni sulla nostra disavventura dice: io non sarei venuto a cercarvi, queste situazioni quasi ve le CERCATE. Con calma gli dico: nessuno ti avrebbe chiesto di fare qualche cosa, rischiando forse la vita per soccorrere gente rimasta in montagna ma, ricordati, che se tu ti fossi trovato in quelle condizioni, anche
se non avessi conosciuto nemmeno il tuo nome , io sarei partito immediatamente. Capisce e non replica.
Dopo qualche giorno Angelo, un mio compagno di sventura, ritornando da Milano, incontra in treno un
coetaneo, il discorso cade sulla montagna. Lo sconosciuto gli chiede: “hai letto sul giornale di quei tre ragazzi rimasti domenica notte sullo spigolo
della Rossa? Chissà come staranno dopo un eperienza simile?” Stanno bene, risponde Angelo, uno di loro sono io…RIDONO DIVERTITI.
Sabato 7 aprile 1973, Mario T.